Alfonso M. di Nola, Storia e simbologia dell’albero

Il rapporto uomo-albero tra antropologia culturale e storia delle religioni.

 Il rapporto uomo-natura si inquadra come atteggiamento di dominio dell’uomo verso l’ambiente inteso in tutti i suoi aspetti di natura minerale, vegetale ed animale. Le diverse modalità che i gruppi umani applicano nell’attuare la loro peculiare e irriducibile relazione con l’ambiente spiega la cosiddetta diversità culturale: le civiltà si sono susseguite nella storia umana con andamento alterno, manifestandosi e scomparendo, comunque imprimendo i loro segni nell’ambiente. Segni che, nella simbologia quotidiana di raccoglitori, pastori, agricoltori e navigatori, hanno contemplato l’albero come uno degli elementi fondativi della realtà umana, perché il legno è l’elemento primario sia come fonte energetica, sia come materiale da costruzione. Storicamente, appropriarsi dell’albero in senso materiale e simbolico esprime l’appropriazione materiale e simbolica dello spazio naturale, cioè la culturizzazione della natura.
Da qualche decennio, l’interazione culturale sempre più complessa ha organizzato attorno all’uomo una tecno-sfera (o anche info-sfera) che rende la realtà umana sempre più correlata ad un guscio semiotico che mutua completamente il suo rapporto con la natura; nel contempo, le rivoluzioni industriali e dei trasporti, il disboscamento, l’inquinamento, il degrado e l’andamento esponenziale della crescita demografica hanno progressivamente impoverito la biosfera, all’interno della quale l’uomo continua comunque ad esistere e a consumarsi a livello biologico. Siamo oggi nell’Era post-industriale, dove l’albero è diventato un’astratta metafora della sua antica rappresentazione ergologica e fondativa, la quale appare irrimediabilmente legata al passato: analizzando le conversazioni del flusso culturale globale, il sostantivo albero si declina non più come pianta vegetale, bensì nell’accezione meccanica di albero-motore, nell’accezione informatica di struttura ad albero, nel senso di organigramma delle organizzazioni complesse (anch’esse strutturate a forma di albero), come pure nella rappresentazione del lignaggio e della storia famigliare (detta appunto albero genealogico). Insomma, attualmente l’albero si reitera nell’info-sfera più come simbolo che come indicazione di un elemento vitale riconosciuto come realmente vicino e indispensabile per la biosfera.
Insomma l’albero, nella sua accezione primaria, non serve più, nonostante la scienza abbia da tempo dimostrato che si basa su una relazione di causa/effetto quell’equivalenza albero/vita che nelle pagine seguenti apprendiamo essere incardinata nelle culture antiche e nel folklore contemporaneo: le grandi foreste di piante verdi sono necessarie alla vita (soprattutto alla vita umana) perché mantengono stabile la concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera attraverso la fotosintesi clorofilliana. Ma come si è arrivati alla rimozione dell’albero vivo dal lessico della funzionalità quotidiana?
Si è arrivati a questo stato di fatto perché, per mantenere gli obiettivi di incessante crescita economica, la politica del capitalismo industriale globale probabilmente considera l’ipotesi di ricavare ossigeno in modo artificiale pur di sfruttare le attuali aree forestali in modo più congeniale ai bisogni culturali che si esprimono in senso invasivo, metropolitano, inquinante e foriero di sconvolgimenti ecologici. Ipotizzando che la popolazione mondiale raddoppierà e arriverà a 12 miliardi di persone entro il 2050, possiamo sospettare che l’uomo di domani decreterà l’inutilità materiale degli alberi, pur di occupare lo spazio delle foreste nel modo ritenuto più produttivo.
E’ immaginabile un simile scenario?
Per rispondere a questa domanda, ci vengono in aiuto le pagine del Di Nola, antropologo culturale e storico delle religioni scomparso nel 1997. Non che io non gli abbia posto simili domande in vita: trent’anni fa, quando ero un’adolescente spaventata dalle fasi acute della Guerra Fredda, gli chiesi se sarebbe scoppiato il conflitto termonucleare globale e lui rispose che l’uomo non era tanto stupido da auto-distruggersi. Ma quando, assillata dalle problematiche ecologiste, gli chiesi se l’uomo sarebbe stato tanto stupido da tagliare le grandi foreste, lui rispose che questa prospettiva era senz’altro più concreta della prima.
Dopo trent’anni, tempo in cui mi sono progressivamente e faticosamente avvicinata al suo metodo di lettura della realtà, ho verificato che Di Nola raccontava la storia dei gruppi umani e della loro realtà pulsante con il fine unico dell’oggettività storica, lasciandosi alle spalle ogni sorta di finalismo rovesciato. La sua era una interpretazione nitida e non-epocale, basata esclusivamente sui dati, secondo i canoni strumentali e democratici dell’enciclopedismo[1], in grado di risparmiare all’interlocutore meno esperto quelle valutazioni romanzesche e quelle generalizzazioni egocentriche che invece proliferano nel flusso culturale del regime lobbistico-conservatore dominante oggi in Italia e altrove. Un flusso persuasivo egemone e strategico che, tramite i mass media, è in grado di indirizzare i comportamenti di gran parte della popolazione in modo da ricavarne un profitto consistente: attraverso la rappresentazione retorica negativa della diversità, ha scatenato il panico della perdita dell’identità e l’incubo del relativismo culturale, ha allontanato dal metodo scientifico, ha favorito le interpretazioni irrazionali e la ricerca di protezione psicologica attraverso i nuovi totalitarismi del consumo, dell’edonismo individualista e della crescita finanziaria che, nei fatti, si rivela essere un investimento fallimentare, portando inesorabilmente alla distruzione del patrimonio culturale inteso come qualità della vita e delle relazioni[2].
Per Di Nola, dietro la progressiva svalutazione dell’albero nell’immaginario collettivo e fondativo delle culture, si celava la nefasta e incessante opera demolitrice della “anonimia della società del profitto”[3], figlia della disumana legge del “sudicio oro” che, in nome del guadagno, impone agli uomini di avere gli stessi voraci consumi, rinunciando ad equilibri culturali e a diversificazioni imprescindibili per i progressi dell’umanità; è questo il vero muro contro il quale si infrangono tutte le aspirazioni di liberazione umana e di progresso; è, questo, il muro della crescita illimitata e del profitto ad ogni costo, un muro ben più pericoloso della religione la quale, essendo nata con l’uomo, si muove con e l’uomo e, in quanto espressione e fondamento di un ordine sociale e simbolico, va studiata e accettata, senza, tuttavia, accettarne i soprusi. Attraverso il metodo comparativo[4], fondamento della sua indagine storico-antropologica, Di Nola ritrae un passato avulso da pregiudizi o suggestioni e ridotto ad un gradiente oggettivo come il suo presente, sulla base del fatto che gli avvenimenti originari dell’umanità, così come pure i comportamenti attuali, sono tra loro collegati in una sorta di contemporaneità di significati. Egli, insomma, rompe con ogni visione storico-epocale, suggerendo nuovi tentativi di interpretazione del fenomeno culturale, relativamente al quale è abituato a riportare un ricco repertorio dati attinenti, senza altro fine che analizzare le dinamiche culturali come aspetto della complessa e multiforme attività dell’uomo. Dunque le presenti pagine, redatte più di vent’anni fa, non si imperniano su un centro narrativo, bensì forniscono una espressione policentrica delle culture e delle varie rappresentazioni che esse hanno dato, nello spazio e nel tempo, dell’albero.
L’antropologia culturale non è più tale, e non è più scienza, laddove pretende di analizzare un tema, come per esempio quello arboreo, in ambito rigorosamente destorificato. In tal caso, si dismettono le più rigorose metodologie scientifiche e filologiche, e si entra nello spazio del “fantasioso”, del “romanzesco”, della generalizzazione etnocentrica che si rivela funzionale solo a colui che si erge, col suo sapere parziale, a giudice immoto di culture e visioni che non ha realmente penetrato e compreso nella loro irriducibilità e contestualità. Il fatto che religioni anche molto distanti fra loro abbiano avuto alberi della vita, alberi del bene e del male o alberi della conoscenza, il fatto che gli alberi siano stati (e per alcuni ancora lo siano) il simbolo dell’unione fra la terra e il cielo, il fatto che per la longevità di alcuni esemplari gli alberi abbiano rappresentato il trascorrere del tempo, secondo gli studiosi evoluzionisti fondava quello che, in modo generico, definivano come culto degli alberi. Da esso deriverebbero concetti come quello dell’Axis Mundi, l’Asse del Mondo, ovvero il gigantesco perno ideale intorno al quale si riteneva girare la Terra. Questa interpretazione è presente per esempio in Mircea Eliade, secondo il quale la divisione dello spazio in quattro orizzonti equivale ad una fondazione del mondo e l’omogeneità dello spazio ignoto è assimilabile al caos al quale si contrappone, in modo positivo, il simbolismo del centro, concretizzato nelle “credenze di investitura del prestigio”[5] di ogni gigantesco albero o palazzo o montagna sacra che racchiuda l’axis mundi. Ma la teoria dell’axis mundi va considerata “incompleta” per il semplice fatto che la riorganizzazione del territorio non è aprioristicamente sacralizzata, né può corrispondere a quelle direzioni assolute e archetipiche indicate da Eliade, poiché lo spazio è innanzitutto funzionale alle esigenze dei gruppi sociali e della loro irriducibile contestualità e storicità. L’elemento ideologico e animistico, dunque, non è fondante, ma parziale e relativo all’elemento pratico e funzionale. Nella determinazione materiale dei contesti umani e nel rapporto uomo-albero, operano meccanismi culturali di alternanza e pendolarità i quali si collocano a monte del cosiddetto spirito della vegetazione di memoria evoluzionistica e frazeriana. Si pensi all’Europa altomedioevale, quando la produzione agricola decadde determinando il restringimento delle aree antropizzate e il notevole avanzamento del saltus, ossia l’incolto forestale selvaggio e sconosciuto nel quale l’uomo proiettò le proprie angosce popolandolo di creature feroci come serpenti, lupi e orsi che, pur nella loro diabolicità solo virtuale, hanno conservato fino ai tempi attuali un legame simbolico con gli abitanti[6].
Dunque, l’alternanza dei fattori climatici e demografici modifica continuamente le simbologie ambientali e, come tali, quelle dell’albero. Come si deduce dalla lettura delle pagine seguenti, l’albero è un connubio vissuto di spazio e azione: esso rappresenta l’ideologia di una cultura e, nello stesso tempo, ne riflette l’operatività materiale, essendo soggetto a modificazione da parte degli uomini che con esso si relazionano, sortendone come albero del primo maggio, come noce del sabba, come palo della cuccagna, come albero-sposo dei rituali erotici, oppure come cipresso cimiteriale, come accessorio monumentale di un’abitazione di lusso, come geometrico arredamento del paesaggio urbano. L’ancoraggio psicologico che gli uomini hanno manifestato verso gli alberi era, e tuttora è, vincolato agli strumenti culturali che si esternano attraverso l’orientamento e l’auto-identificazione con gli elementi della biosfera. Dunque, l’albero non è un archetipo (termine caro a certa antropologia evoluzionista quanto a maghi e cartomanti), bensì è un elemento del contesto antropico.
Per tornare alla “domanda estraniante”, ovvero se per l’uomo di domani sia possibile fare a meno degli alberi, non possiamo dunque che immaginare la possibilità. Se la soluzione scientifica è stata progettata, se nello scenario dei prossimi secoli l’equilibrio della biosfera potrebbe affidarsi agli elaboratori di calcolo, così come la produzione di ossigeno potrebbe delegarsi a organismi acquatici pur di erodere lo spazio residuale nel quale Homo Sapiens ha relegato le ultime grandi foreste, forse si procederà con la drastica riduzione del patrimonio arboreo del Pianeta e con l’eliminazione della foresta amazzonica come ecosistema arboreo selvatico, poiché l’espansione demografica del genere umano, secondo le logiche di sfruttamento insite nel capitalismo parassitario, tende a interpretare la biosfera come spazio di consumo, come habitat umano, come metropoli, come terreno di profitto agricolo e zootecnico. Così come è stato per gli animali selvatici, gli esemplari superstiti verranno chiusi in parchi a pagamento, mentre la gran massa del patrimonio arboreo cadrà sotto la macchina del capitalismo parassitario e dello sfruttamento industriale.
Solo nel folklore – di cui abbiamo evidenziato il valore salvifico e la presenza stratificata – l’albero rappresenta ancora un elemento patrimoniale, ovvero un elemento fondamentale nella definizione del territorio immaginario e reale, nella simbologia della continuità condivisa e dei plusvalori ad essa connessi, come quello della democrazia e della partecipazione alla vita del villaggio intesa come “bene comune”, come “domesticità”, come “programmabilità” e come “operatività nel reale”. E sarà solo il folklore ad opporre modelli alternativi all’eliminazione degli alberi. Come suggerisce di Nola, la storia reale (ovvero quella dei rapporti economici) “non è generata ex nihilo nelle forme che di volta in volta assume, ma risultato di un’azione e pressione delle forme precedenti cronologicamente, anche e soprattutto di quelle ideologiche”[7]. E, nel caso specifico di quella che possiamo definire civiltà dell’albero, la costellazione ideologica è particolarmente evidente sul piano religioso, alla cui interpretazione l’antropologo culturale è assai sensibile: «Anche gli alberi hanno la loro anima che è in fondo, il demone stesso della vegetazione, come lo sono gli spiriti antropomorfici o i re di maggio, le cui gare o processioni si inverano, appunto, nel conducimento e nel seppellimento dello spirito dell’albero»[8], scriveva Cocchiara nella sua prefazione all’edizione italiana di Frazer, il Ramo d’oro, opera enciclopedica nella quale il problema delle origini dell’umanità si innesta su quello della storia delle religioni. Secondo il modello di spiegazione elaborato da Frazer, nella storia delle religioni l’animismo vegetale deriva dalla visione magica del reale, la quale si basa sul principio di similarità (il simile genera il simile, su cui si fonda la magia omeopatica) o sul contatto: la magia spiega pure le due mitologie evocate dal titolo, ovvero il ramo d’oro che Enea si procura per discendere nell’Ade, e la vicenda protostorica dell’uccisione rituale dei re nel bosco di Nemi.  Si tratta di mitologie in entrambi i casi fondate sull’analogia albero-vita, sul sintagma albero-persona, secondo una costruzione simbolica funzionale al rispetto religioso degli alberi, attorno ai quali si organizzavano riti sacrificali di espulsione del male.
Per questo senso di appartenenza religiosa, l’albero della piazza rappresentava l’agglomerato abitativo e rappresentava l’intera vita della comunità e degli individui, dalla nascita alla morte, come sottolinea pure Bronzini[9]. Solo in questa Weltanschauung (visione del mondo) la globalità dell’esperienza (o dell’essere nel mondo) congiunge il piano profano-naturalistico ed il piano religioso-sovrannaturalistico, per cui la religione si dilata fino a diventare totalità della cultura e dell’identità.
Da queste pagine ricaviamo che l’albero non è un archetipo, ma ricaviamo pure che esso è un elemento culturalmente fragile e, in quanto tale, partecipa al declino delle grandi narrazioni, dei contesti e delle istituzioni tradizionali; per fortuna, come diceva Alfonso di Nola, l’uomo non è stupido, e il meccanismo distruttivo del capitalismo parassitario, perfettamente oliato da anni di efficace applicazione, viene contestato da istanze che al contrario fanno della decrescita consapevole la loro bandiera e fanno del dialogo e del relativismo culturale la loro strategia, animandosi di una laica pietà diretta verso una meta spirituale umana, il cui nucleo sia un codice di comunicabilità esistenziale connesso alla comune condizione di tutte le creature del Pianeta: umane, animali, vegetali.

Lia Giancristofaro

[1] Per questo, Mircea Eliade, studioso grande ma vincolato al suo tempo, rimproverò a Di Nola la mancanza di una “sintesi personale”, cfr. M. Eliade, “Recensione all’Enciclopedia delle Religioni” (l’opera, edita in sei volumi da Vallecchi, Firenze, nel 1972, venne redatta da A. M. di Nola per la quasi totalità delle voci), in History of Religions, n. 12- 1972, pp. 290-295. Di Nola, invece, non intendeva imporre una unica interpretazione delle migliaia di fenomeni storico-religiosi che aveva analizzato, altresì proponendone quante più soluzioni fosse possibile. Tra i due studiosi sussisteva una contrapposizione politica, essendo stato Eliade in relazione con il nazismo, cfr. C. Grottanelli, “Alfonso M. di Nola e Mircea Eliade”, in AA. VV., Antropologia e storia delle religioni, Newton Compton, Roma 2000, p. 37.

[2] L’attuale “ritratto degli italiani” presentato dal Censis (6/6/2011) registra la deriva della qualità sociale: l’autocontrollo e il rispetto delle regole in Italia sono in calo, ingiurie e le percosse sono in aumento, emergono principalmente l’autoreferenzialità e il tentativo di legittimare le pulsioni più narcisistiche, a capo delle quali c’è il “bisogno di apparire”. L’indagine parla chiaramente di “disagio nella società italiana”.

[3] A. M. di Nola, “Radici distrutte e risuscitate”, in Scritti rari, a cura di I. Bellotta ed E. Giancristofaro, Edizioni Rivista Abruzzese, Lanciano 2000, pp. 67-70.

[4] In Di Nola, la premessa all’utilizzo del metodo comparativo è la necessità di misurare ogni fenomeno nel contesto dove esso di sia prodotto, nel presupposto che ogni fenomeno deve essere in primo luogo analizzato in base alla sua specificità. Nonostante il confronto tra campioni di diverse culture e la ricerca di costanti rappresentasse per lui una necessità preliminare e imprescindibile, egli, rifiutando la generalizzazione, evitò di costruire strutture eccessivamente astratte e si pose agli antipodi delle teorie evoluzionistiche della cultura.

[5] M. Eliade, Archetipi e ripetizione, in Il mito dell’eterno ritorno, Borla, Torino, 1966, p. 27; lo stesso concetto si trova nel capitolo Lo spazio sacro: tempio, palazzo, centro del mondo, in Trattato di storia delle religioni, Einaudi, Torino, 1954, pp. 140-145, e ne Il simbolismo del centro, in Immagini e simboli, Milano, Jaca Book, 1986.

[6] Si pensi, per l’Abruzzo, al culto dei serpenti a Cocullo e alla festa del lupo a Pretoro, dove s. Domenico di Sora è divenuto il simbolo locale dell’addomesticazione dell’animale selvatico il quale assurge, tuttora, a rappresentare una dimensione che, da negativa, può diventare positiva per l’intercessione del carisma di santità, cfr. A. M. di Nola, Gli aspetti magico-religiosi di una cultura subalterna italiana, Boringhieri, Torino, 1976, pp. 15-45.

[7] A. M. di Nola, Aspetti magico-religiosi di una cultura subalterna italiana, Boringhieri, Bergamo 1976, p. 13.

[8] Giuseppe Cocchiara, Prefazione a Il ramo d’oro di James Frazes (ed. or. Londra, 1915), Torino, Boringhieri, 1965, p. 11.

[9] Giovanni Battista Bronzini, Accettura. Il contadino, l’albero, il santo, 1979, Congedo, Galatina.

Rivista Abruzzese