Guerra e Resistenza in Abruzzo nei ricordi di Francesco Sabatini, linguista e presidente emerito dell’Accademia della Crusca. A cura di Maria Rosaria La Morgia

«Ho ancora nelle orecchie il vociare del mercato di Piazza Garibaldi, delle contadine che richiamavano l’attenzione sui loro prodotti e che, a un certo punto, variavano il grido con altri messaggi: Paparùolə, paparùolə…Ciii’, vann’acchiappènnə. Paparùolə, paparùolə…Ciii’, vann’acchiappènnə. Prima il richiamo sui peperoni, e poi l’avviso, con voce più stridula e una prolungata pronuncia della i, “Ciccio, vanno rastrellando!». E ricordo che subito si notava (dall’alto del nostro balcone) qualche persona che si allontanava dalla piazza andando verso il Borgo Pacentrano (lu Bruìttə), un dedalo di vicoli nel quartiere orientale di Sulmona, dove evidentemente aveva il suo nascondiglio. Eravamo lì dal 3 novembre del ’43, sfollati da Pescocostanzo e alloggiati nell’appartamento dei nonni materni, Scipione ed Emilia D’Eramo». Francesco Sabatini, linguista e presidente emerito dell’Accademia della Crusca – tra le numerose onorificenze conseguite ricordiamo la Medaglia d’oro del Presidente della Repubblica per la Cultura, l’Arte e la Scuola nel 1988 e la cittadinanza onoraria di Sulmona nel 1991 – va indietro nel tempo e dalla memoria fa emergere fatti, volti, voci degli anni della guerra. La sua famiglia, originaria di Pescocostanzo, viveva dall’autunno del 1940 a Roma, dove suo padre esercitava la professione di medico. D’estate tornava a Pescocostanzo. Il 10 giugno del ’40, il giorno in cui fu dichiarata la guerra, il piccolo Francesco si trovava a Sulmona con il padre, la madre e il fratello. «Eravamo scesi da Pescocostanzo perché mia madre rinnovava il suo vestiario da una modista in Piazza XX Settembre. Erano le 4 del pomeriggio e la piazza era gremita di gente, pronta per ascoltare dagli altoparlanti il discorso di Mussolini. Mentre mia madre misurava i suoi vestiti dalla modista, noi tre eravamo in un angolo della piazza, dove si trovava anche una pasticceria, nostra abituale meta a Sulmona. Così sentimmo l’intero discorso e quando questo si concluse con le parole “Abbiamo dichiarato la guerra all’Inghilterra” ci fu il fragoroso applauso dei ferventi fascisti. Accanto a noi s’era fermata una coppia di contadini e lui, quando sentì quelle parole, si rivolse alla moglie dicendole: la uerrə!!… chissə so’ pazzə…jaməcìnnə, jammə! (la guerra! costoro sono pazzi; andiamo via)».

 

Ma torniamo al 1943. Anche quell’estate avevate lasciato Roma per andare in vacanza a Pescocostanzo?

«Sì, certo, dalla fine di giugno eravamo in paese. Ma i nostri genitori, il 19 luglio, erano tornati a Roma per impegni familiari e subirono il bombardamento mentre erano in treno alla stazione Prenestina. Salvi, l’indomani tornarono spaventati a Pesco. Il 25 luglio, giorno della caduta del Fascio, eravamo in paese, dove c’erano numerosi confinati slavi. Ricordo che all’improvviso ne sbucarono due, credo croati, due omoni, che con due grosse “mazze” (i martelli più pesanti) si lanciarono contro alcuni fasci di pietra. Poi il 27 agosto ci fu il primo bombardamento di Sulmona e da quella città arrivarono in paese molti sfollati, compresi i genitori di mia madre e una zia, che vennero a stare da noi. Dopo l’8 settembre, a qualche giorno di distanza, ci fu l’occupazione tedesca. La nostra casa fu requisita per metà da due ufficiali tedeschi e un loro attendente. Quest’ultimo, un giovane biondino (di cui ricordo il nome: “Miki Sizinski”, ma non so come si scrivesse), era addetto a pulire le armi, un’operazione che attraeva me e mio fratello. Una volta cavò dal portafogli e ci mostrò le foto di due bambini, saranno stati i suoi figli. Qualche sera, uno dei due ufficiali scendeva al nostro piano e scambiava una breve conversazione in francese con mio padre. Dopo un paio di settimane, di notte arrivarono altri reparti, i paracadutisti, e l’occupazione si fece molto più dura. Un reparto entrò di notte nella nostra casa, sfondando una porta nella strada laterale, arrivò nelle nostre stanze, prelevò nostro padre e lo trascinò per le scale gridando e puntandogli un mitra contro. Atterriti, guardavamo la scena dalla porta rimasta aperta. Scese dal piano di sopra uno degli ufficiali, si frappose tra l’arma e mio padre, allontanò i due nuovi arrivati e sussurrò alle orecchie di mio padre: Pas bon, camarade! Dunque: “costui è niente di buono”. Per giorni mio padre ripeté quelle parole. Ormai quella era zona di guerra: si era pienamente attivata la “Linea Gustav”, la grande barriera di resistenza degli occupanti tedeschi contro l’avanzata degli Angloamericani che risalivano dal Sud».

 

Quando e perché la sua famiglia decise di trasferirsi a Sulmona?

 «Ai primi di novembre del ’43 fu ordinato lo sfollamento della popolazione di Pescocostanzo e degli altri paesi della zona. Come tanti, anche noi saremmo dovuti andare nei boschi delle nostre montagne, aspettando da un giorno all’altro gli Alleati. Questi erano già a Castel di Sangro, a 10 chilometri in linea d’aria, e si pensava che stessero per arrivare anche nei nostri paesi. La mattina del 3 novembre eravamo pronti per l’appuntamento, dietro il portone di casa. Ma il camioncino che doveva prelevarci non venne: fu quella la nostra salvezza. In realtà, gli Alleati non sfondarono il fronte e le operazioni durarono ben altri sette mesi! Coloro che si erano rifugiati nei boschi se la videro davvero brutta: braccati, costretti ad attraversare i campi minati e il fiume Sangro per raggiungere il territorio in mano agli Alleati. Noi invece fummo caricati da un camion tedesco, che raccoglieva gli ultimi rimasti in paese, per portarli verso L’Aquila o più a Nord, non si sa dove. Alcuni furono portati fino a Padova. Ma a Sulmona, durante una sosta del camion, riuscimmo a scappare e a rifugiarci dai nonni nella casa di Piazza Garibaldi.

 

Dopo l’8 settembre del ’43 Sulmona era diventata uno dei centri più importanti per l’aiuto ai prigionieri alleati fuggiti dal campo di concentramento di Fonte d’Amore, in città c’era una organizzazione che li aiutava a nascondersi e poi ad attraversare la Maiella per raggiungere l’esercito anglo-americano. La zona di Borgo Pacentrano era il cuore di quest’attività. Scavando nella sua memoria quali volti e quali voci le tornano in mente?

«Noi vivevamo nascosti perché girava voce che i reparti tedeschi cercavano gli sfollati da portare via. Non appena si sapeva di perquisizioni correvamo a nasconderci. Dalle finestre vedevamo le formazioni di aerei spuntare da dietro la Maiella e subito erano su Sulmona. Il loro rombo era un incubo. Il 2 febbraio (ahimè, ricordo bene le date!) vidi saltare in aria una villetta, che si trovava al di là dell’orto delle monache (di Santa Chiara), sul retro della casa dei miei nonni. E poi c’era, come ho detto, il vociare del mercato, i rastrellamenti, le fughe. E l’ultimo terribile bombardamento del 30 maggio mattina, quando gli Alleati cercarono di colpire il generale Kesselring in ritirata da Sulmona. Avevamo sentito parlare di una forma di resistenza in città, ma non sapevamo dell’organizzazione che aiutava i prigionieri e gli antifascisti ad attraversare la Maiella, non sapevamo perché non uscivamo mai, vivevamo reclusi in casa. Le scuole erano chiuse. Mio padre ci aveva affidati a una docente (la professoressa Santini) che ci faceva lezioni private. Io avrei dovuto frequentare la terza media e mio fratello il quarto ginnasio. A scuola saremmo tornati nell’autunno del ’44».

 

In quei mesi si formarono molte bande partigiane e l’Abruzzo diventò terra di Resistenza armata e umanitaria. Nacque la Brigata Maiella al comando dell’avvocato Ettore Troilo che riuscì a conquistare la fiducia dei comandi inglesi. Nel giugno del ’44 i patrioti della Maiella furono i primi ad entrare a Sulmona e a liberarla. Li ricorda?

«Dai balconi di piazza Garibaldi vidi arrivare persone in abito civile ma armati di fucili e mitra. Erano i Patrioti della Maiella, sì. Ricordo che catturarono un uomo ritenuto un fiancheggiatore dei tedeschi, il suo soprannome era Takmatràk (pare che il nome derivasse dal fatto che vantava il rumore della sua motocicletta). Ancora durante l’occupazione tedesca si era verificata una vicenda importante per la mia famiglia: il trafugamento della biblioteca di casa, tanto cara a mio padre. Le cose andarono così. Mio padre, medico appassionato di storia, paleografia, letteratura, sapendo che avrebbero raso al suolo il centro abitato di Pescocostanzo ( così si diceva, ma poi non fu), si rivolse alla Deputazione Abruzzese di Storia Patria per far giungere al comando tedesco la richiesta di non distruggere i libri. Fu convocato al Comando di Sulmona e un capitano lo rassicurò, promettendogli di chiamarlo per andare a scegliere i volumi da salvare. Nell’ aprile del ’44 vennero a prenderlo con una camionetta e ricordo che lui, prima di salire sul mezzo, ci abbracciò e ci disse: “Io vado per salvare quello che posso, chissà se ci rivedremo”. Per fortuna tornò sano e salvo, ma senza libri, perché la biblioteca era già stata portata via quasi per intero! Dopo la guerra, attraverso scambi di notizie con uno sconosciuto giovane tedesco ( Horst Wolf) che era entrato in corrispondenza con mio padre, altre indagini e rivelazioni acquisite da una indagatrice tedesca e dal bibliotecario Gűnter Richter, e con l’aiuto del prof. Harro Stammerjohann di Francoforte, e di sua moglie Stefana Sabin, giornalista, abbiamo scoperto che i libri erano finiti nella Biblioteca dell’Università di Magonza, da dove nel 1991 ce n’è stata riconsegnata una piccola parte». (L’intervista continua sul n. 1/2021)

 

Rivista Abruzzese