Sulla salvaguardia del patrimonio culturale intangibile.

Sulla salvaguardia del patrimonio culturale intangibile.

Il rituale di Cocullo in una legge regionale.

La Convenzione Unesco del 2003 per la Salvaguardia del Patrimonio Culturale Intangibile (detto Pci o ancora meglio Ich, dall’inglese Intangible Cultural Heritage) nell’ambito delle politiche culturali ha introdotto e dato grande visibilità a livello mondiale al tema della partecipazione comunitaria intesa come momento fondamentale per l’espressione dei valori di una società civile e democratica attraverso la messa in atto di azioni di salvaguardia, trasmissione e valorizzazione delle tradizioni popolari più meritevoli di tutela e più a rischio nel processo di omologazione globale. Tale orientamento è stato recepito anche in Europa, dove il concetto di Ich è stato rafforzato dall’introduzione del concetto di “comunità patrimoniale” per indicare il ruolo attivo delle comunità locali nell’esperienza di valorizzazione e di partecipazione democratica alla sfera pubblica (Convenzione di Faro, Consiglio d’Europa, 2005).

In Italia, dopo la ratifica della Convenzione Unesco (2007), la principale strategia per la messa in atto delle politiche culturali sull’intangibile sembra essere stata quella dell’inventariazione da parte degli esperti, che si è attuata con pratiche ministeriali di catalogazione (Iccd) e con svariate iniziative regionali, anche autonome; alcune di queste campagne di catalogazione dell’intangibile hanno riguardato anche l’Abruzzo e una di queste è stata portata avanti nell’ambito del progetto Cadra (2008). Si tratta di un settore in espansione e continua rivalutazione critica, che di recente ha visto l’ingresso più diretto dei territori nelle pratiche di catalogazione, in conseguenza delle candidature per l’iscrizione nella Lista Rappresentativa Unesco del Patrimonio Culturale Intangibile, la quale richiede ai soggetti candidati l’apertura di un inventario. L’iscrizione nella Lista Unesco Ich, in un’Italia che conta ben 47 siti iscritti nella Lista del Patrimonio Culturale Materiale (i centri storici di Roma, Venezia, Firenze, solo per citare i primi), è stata finora concessa solo a questi “giacimenti culturali”: l’opera dei pupi di Palermo (2001), il canto a tenore della Sardegna (2005), la dieta mediterranea (2010), la liuteria di Cremona (2012). Un comitato aquilano, all’indomani del terremoto del 2009, si è attivato per richiedere l’iscrizione in questa Lista del rito secolare della Perdonanza, al fine di salvaguardarne la continuità.

Il dato critico è che, così come gli inventari dei Beni Materiali, anche gli inventari dei Beni Intangibili sono oggi realizzati attraverso le procedure nazionali che si rifanno alle schede ministeriali Iccd (Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione) e si basano su una visione centripeta e disciplinare dei Beni Culturali. Tutto questo sta portando a riflettere sul senso da attribuire al concetto di “partecipazione” delle comunità, perché il ruolo preponderante dei “portatori di interesse” emerge dai territori stessi, in quanto è nelle relazioni comunitarie che si sostanzia il patrimonio intangibile come insieme contemporaneo di valori e di pratiche. Purtroppo la logica che muove gli inventari nazionali equipara la “partecipazione” delle comunità al semplice “consenso” dei detentori nei confronti di un “prelievo” di informazioni eseguito dal catalogatore, che spesso emargina la consapevolezza patrimoniale da parte dei detentori e la stessa dinamica comunitaria, la quale è inevitabilmente disomogenea, ibrica, in continua evoluzione. Il concetto di “comunità patrimoniale”, così come quello di partecipazione e di “inventariazione del basso”, richiede con urgenza la condivisione comunitaria del linguaggio tecnico e delle strategie politiche di “artigianato dell’intangibile” che usualmente rientrano nella professionalità dell’antropologo o dell’operatore culturale.

Queste inevitabili frizioni tra la dimensione culturale egemone e quella subalterna in Abruzzo hanno trovato una singolare pacificazione e armonizzazione in un piccolo paese di soli 300 abitanti, Cocullo, il cui rito primaverile di S. Domenico dei serpari gioca da tempo il ruolo di festa più rappresentativa e caratterizzante dell’intera regione. La festa, di cui i cocullesi sono gli indiscussi portatori e padroni, da oltre trent’anni si giova delle ricerche e della vicinanza morale e discreta di un gruppo di studiosi che dal 1997, in memoria dello studioso che più si dedicò all’interpretazione di questa festa popolare nella contemporaneità, hanno istituzionalizzato il loro contributo scientifico come Centro di Documentazione per le Tradizioni Popolari intitolato appunto ad Alfonso M. Di Nola. II Centro, inteso a sua volta come “comunità patrimoniale” di antropologi culturali e di cittadini animati da un interesse non dilettantesco per la ricerca storico-sociale, ha intessuto una rete di relazioni importanti di livello non solo globale, ma anche (e soprattutto) locale, restituendo vitalità e consapevolezza ad un borgo montano destinato allo spopolamento, con ricadute positive sull’intero comprensorio. Per esempio, Antonio Arantes, docente di antropologia culturale all’Università Campinas di San Paolo del Brasile, nonché tra i padri fondatori della Convenzione Unesco del 2003, ha visitato il Centro e l’annesso Museo del Rito di S. Domenico, complimentandosi per la tutela del rituale e per l’imponente documentazione sul folklore abruzzese curata da Emiliano Giancristofaro. In conclusione, Cocullo si configura oggi come una “comunità patrimoniale” nella quale l’inventariazione dei beni culturali, intesa come salvaguardia, viene esperita in modo democratico, collettivo e partecipativo tra i paesani e i loro ospiti.

Per questo ed altri aspetti, considerando che nel giorno della festa il paese ospita fino a 20 mila visitatori ed è sottoposto a rischi, stress e tensioni oltre misura, il Consiglio Regionale d’Abruzzo il 22 gennaio 2013 ha riconosciuto l’importanza e la rappresentatività della sua funzione culturale con una legge che concede al paese un contributo annuale per la gestione e per la salvaguardia del suo patrimonio culturale intangibile, che oggi rappresenta un interesse non più paesano e comprensoriale, ma regionale. Mi piace sottolineare che i Cocullesi, opponendosi alle ingerenze esterne e alle logiche opportunistiche e mercificanti dello sfruttamento turistico, hanno sempre rivendicato la partecipazione e la padronanza nei confronti della “loro” festa, realizzando una comunità patrimoniale consapevole e umana che è tuttora in grado di offrire al grande pubblico il proprio rito come un “dono di sé”, senza lasciarlo decadere nel processo di scambio meramente economico, come di frequente accade nel campo della valorizzazione delle tradizioni locali.

L’esempio di “buona pratica” realizzato a Cocullo ha due risvolti, uno negativo, e uno positivo. Il rivolto negativo è che questo singolo esempio di salvaguardia non è assolutamente sufficiente a valorizzare né a garantire nel futuro tutta l’ampia gamma di tradizioni popolari abruzzesi che rischiano di venire in breve tempo dismesse dai giovani o, peggio ancora, passivamente “recitate” e strumentalizzate a fini turistici da parte delle loro comunità, sortendo quell’effetto posticcio e dilettantesco del “folklore del Minculpop”, da cui un “gioiello montano” come il rituale di Cocullo è stato preservato per una serie di circostanze positive. La Regione Abruzzo, anziché interessarsi delle pratiche rappresentative dell’Ich solo dietro la sollecitazione sporadica delle singole comunità, dovrebbe farsi carico di un più complesso e organico “Piano di Salvaguardia Culturale” elaborato da esperti e adatto a individuare una rete di tradizioni abruzzesi pacifiche, creative e significative, in modo da dare esecuzione locale alla Convenzione Unesco del 2003 e alla Convenzione di Faro del 2005, su cui rischia di essere lacunoso l’operato complessivo delle istituzioni italiane, che di valorizzazione culturale parlano spesso, ma senza cognizione di causa. In confronto alle straordinarie opere di salvaguardia dell’Ich portate avanti dal Belgio, dal Brasile, dalla Cina, dal Giappone e dal Mozambico, le iniziative italiane appaiono ben poca cosa, soprattutto perché il più delle volte si tratta di operazioni decontestualizzate. Forse la Regione che, in tal senso, si è messa in regola è la Lombardia, la quale ha costruito la rete intergovernamentale Echi del patrimonio culturale intangibile (www.echi-interreg.eu) e si è candidata, in tal modo, ai maggiori premi finanziari che l’Unione Europea riserverà a quanti osservino la Convenzione di Faro coi fatti concreti e “di rete”, evitando le iniziative dispersive e frammentarie che sono adatte ad accontentare le istanze dei singoli campanili, ma non restituiscono un’immagine coerente e competitiva di un territorio più ampio quale quello regionale o comprensoriale.

Il risvolto positivo di questa legge “pro-Cocullo” risiede invece nella “generale prova di utilità” del metodo antropologico che, incentrato sulla vitalità quotidiana e creativa delle comunità portatrici di tradizioni, nei territori individuati come giacimenti culturali è lo strumento principale non solo della salvaguardia dell’Ich, ma anche dell’inclusione sociale e della sostenibilità economica. Nel momento in cui viene meno la vocazione universalistica dell’antropologia culturale nella spiegazione della diversità culturale, questa scienza passa ad assumere un compito ancora più professionalizzante e delicato: essa deve non solo esercitare un’azione di supporto alle politiche di salvaguardia e valorizzazione della diversità culturale che si muovono nella scena mondiale, ma anche estendere la sua tradizionale vocazione all’ascolto a quelle modalità di produzione, di riproduzione e di fruizione dell’intangibile che non sono allineate con i linguaggi patrimoniali egemoni e che, mostrando di essere resistenti e controtendenza, rappresentano l’ultimo ancoraggio alla vitalità della diversità culturale.

Lia Giancristofaro

 

 

 

 

Rivista Abruzzese