LA POVERTÀ RICCHEZZA DEI POPOLI.  IL PARADOSSO DI ALBERT TÉVOÉDJIRÉ

Già il titolo del libro di Albert Tévoédjiré, La povertà ricchezza dei popoli (La pauvreté, richesse des peuples, Editions Ouvrières, Paris, 1978. Préfaces de Jan Tinbergen et Dom Helder Câmara; trad. italiana EMI, Bologna, 1982), è un messaggio forte e chiaro. Ripensare la ricchezza dei popoli non semplicemente nella prospettiva dell’economia dominante, ma in quella multiforme della vitalità e creatività delle culture, dei saperi, degli adattamenti ad ambienti diversi, a volte ostili o estremi, delle tradizioni vive e dinamiche, della trasmissione delle conoscenze, delle capacità e delle pratiche proprie ad ogni comunità o popolo, dei gesti quotidiani, delle feste e delle celebrazioni, delle espressioni del pensiero, dei simboli, dei linguaggi, delle arti e degli artigianati, dei giochi, delle percezioni e rappresentazioni del mondo naturale e sociale, della diversità, complessità, dignità, umanità e profondità di ogni gruppo umano. Se le parole del titolo suonano come un ossimoro, il paradosso va sempre al di là dei semplici termini e porta a riflettere su alcune sfide fondamentali: distinguere con intelligenza tra povertà e miseria, riflettere sulla storia, superare l’attuale imperativo categorico “fatti ricco, guadagna e consuma”, resistere ai miraggi dell’industrializzazione massiccia come unica fonte di ricchezza, superare l’economia competitiva del mercato e del Prodotto Interno Lordo, che ha ben poco a che fare con l’uomo, il suo benessere, la salute e l’ambiente, rifondando economie di filiera, locali, solidali, condivise, creative, diversificate e policentriche, rispettose dell’ambiente e delle sue risorse.

Albert Tévoédjiré nasce nel 1929 a Porto-Novo nel Benin, nell’antico Regno del Dahomey, il paese dell’Africa equatoriale abitata dai Fon, Yorùbá, Adja, Somba e un’altra quarantina di gruppi etnici e linguistici. Da bambino conosce le sofferenze e l’umiliazione della miseria. Da adulto e da personaggio pubblico vuole distinguere quest’ultima dalla povertà e ne fa un tema accorato e corale insieme a chi ha avuto il coraggio di affrontarlo e magari anche viverlo. Personalità diverse discutono con lui invitandolo ad approfondire il suo pensiero e a proporre delle azioni concrete. Tra le persone che lo sostengono ci sono il filosofo scrittore Ivan Illich, la baronessa e politica inglese Judith Hart e il sudafricano bianco Harry Oppenheimer, uno degli uomini più ricchi del mondo, Léopold Senghor e Aimé Césaire, fondatori del movimento della negritudine, il Nobel per l’economia Jan Tinbergen e il santo dei poveri Helder Câmara. Nel 1978 esce il libro in Francia sulla reinterpretazione della povertà come ricchezza. Viene tradotto in italiano nel 1982. Non sembra esistere una traduzione in inglese. Forse il libro mette troppo in imbarazzo l’establishment internazionale di cui l’autore stesso fa parte come vicedirettore dell’Ufficio Internazionale del Lavoro.

La povertà non è la miseria. La miseria che riduce gli spazi dell’esistenza con l’indigenza, la fame, le malattie, le guerre, l’ingiustizia sociale e la mancanza di libertà va combattuta ed eliminata. La povertà è ben altro: pensiamoci tutti seguendo quest’uomo che la miseria l’ha vissuta in prima persona. La povertà è ricchezza. È l’essenza della dignità dell’uomo e dei popoli. È un valore che ne racchiude altri senza enfasi, teorie o dogmi. È l’essere, non l’avere. È essere e vivere dentro e fuori, con e per il necessario, non immersi nel ciclo dell’inutile, magari con vanto o facendo notizia. Per gli individui, e ancor più per un popolo, povertà significa vivere l’essere, l’essenziale, l’esistere. L’autore ci sollecita a riconsiderare un modo di pensare troppo abituale, spesso lineare e stereotipato, invitando ad aprire orizzonti più originali, individuali e collettivi, evitando facili riferimenti eruditi (ai saggi di Adam Smith preferisce il coro di Porgy e Bess di Gershwin) o francescani. Si tratta di uno sguardo nuovo e vivo sulla povertà che in realtà racchiude il messaggio dei molti che nella storia, o ancora oggi, hanno sollevano interrogativi per tutti: è più ricco chi ha il necessario o chi ha il superfluo? con quali valori si misura la dignità di una persona o di un popolo? i modelli dominanti dell’economia quali valori propongono? la presunta ricchezza delle società industrializzate non dissimula in realtà una miseria crescente? che ruolo e che valore hanno le mille espressioni della cultura creativa (arte, artigianato, canti, danze, ritmi, feste, giochi, poesia, letteratura, filosofia e quant’altro)?

Dalle riflessioni su questi ed altri interrogativi si arriva a una concezione di “povertà operativa”, cioè «una leva per l’azione di sviluppo, tavola di salvezza in un mondo dove è costantemente necessario reinventare il proprio divenire. Non fatalità o rassegnazione, ma valore positivo da scegliere liberamente e che interpella tutti, individui e popoli». Il libro è costruito sulla complessa personalità e prospettiva del suo autore, dal bambino africano cresciuto nella miseria al personaggio internazionale e alto responsabile dell’Organizzazione Mondiale del Lavoro. Ma il suo messaggio diventa universale e interroga tutti potentemente senza mai scadere in moralismi o posizioni di parte. Anche la critica alla società dei consumi solleva semplicemente quesiti, a differenza di tanti studiosi contemporanei che danno risposte prima di formulare, o aiutarci a formulare, domande ben poste. È ad esempio anticipatrice e attualissima la sua riflessione sulla dimensione ambientale della povertà. Premettendo che «l’analogia biologica applicata alle realtà sociali ha condotto spesso a delle interpretazioni abusive», l’autore ricorda che la natura nel suo equilibrio dinamico produce il molto con poco, consuma il necessario e ricicla tutto senza accumulare l’inutile né sprecare l’utile. Se rispettata ci offre le risorse per vivere, ci stupisce per la sua diversità, è la fonte prima e ultima del nostro benessere. Oggi le politiche economiche, in alcuni paesi e nel quadro comune delle Nazioni Unite, cercano di costruire su queste basi un modello di economia circolare, senza sprechi, sostenibile nel tempo, socialmente condivisa, partecipata e solidale.

A sostegno di nuovi modelli economici e di una “povertà operativa” entra in gioco la cultura propria ad ogni popolo, comunità o gruppo, come tessuto connettivo di equilibrate scelte politiche, economiche e sociali. La cultura non è un epifenomeno che sfugge a definizioni precise. È una forza che unisce e collega al di là dei nazionalismi o delle identità da parata. È un insieme di valori materiali e immateriali che hanno significati complessi ma usi precisi. Sono il fondamento di qualsiasi sviluppo endogeno e creativo, senza le imposizioni esterne o dall’alto di un sistema omologato, unificato e unificante. Pensiamo al valore e alla diversità delle lingue: ci sono incomparabilmente più lingue nei paesi poveri che nei paesi ricchi. Lingua significa conoscenze, creatività, adattamento e trasmissione della cultura, poesia, canto e letteratura, educazione formale, non formale e informale, libertà di pensiero e di espressione, scelte sociali, economiche e politiche indipendenti. Come esempio di sistema imposto, unificante e generatore di miseria ci sono le grandi estensioni urbane del terzo mondo, modelli compiuti di una società di accumulo, eccesso, ammassamento, inquinamento, che generano ingiustizia, corruzione, mancanza di libertà e legalità.

È “urgente rinascere e inventare”, sfidando l’impossibile, partendo da una rifondazione dell’economia dominante su un vero sviluppo solidale e policentrico, come lo aveva definito anche, anni dopo, il premio Nobel dell’economia Elinor Ostrom: uno sviluppo che «facilita il raggiungimento di benefici a diversi livelli e al tempo stesso la sperimentazione e l’apprendimento dall’esperienza con diverse politiche». Reinventare l’economia significa per Tévoédjiré «prima di tutto operare una profonda revisione culturale, una critica al tipo di sapere dominante, in modo da restituire tutti i suoi diritti ad una ragione radicata nell’esperienza e da essa confortata». Di qui il passaggio, attualissimo, da un’economia del Prodotto Nazionale Lordo (PIL) a una visione concreta di Benessere Nazionale. Tutti sappiamo che il PIL è un indice universalmente usato dai paesi e che ingloba qualsiasi prodotto senza tenere conto dei costi ambientali, sociali e culturali: in pratica significa che un paese che produce bombe atomiche o inquina le falde acquifere vede il suo PIL aumentare. Per sostituire il PIL sono stati proposti ed elaborati indici diversi basati su parametri sociali, culturali ed ambientali. Tra questi l’Indice di Sviluppo Umano definito nel 1990 e che, a partire dal 2010, l’ONU ha fissato sulla base di tre variabili articolate: aspettativa di vita (che include per es. la salute e l’accesso alle cure mediche), istruzione (che permette di eleggere liberamente i propri rappresentanti) e reddito (che qualifica il lavoro). Sebbene altri indici si avvicinino alla dimensione umana e culturale di un popolo, siamo ancora lontani dall’esprimere i valori che sono alla base di un equilibrio tra gli aspetti economici, sociali, culturali ed ambientali. Gli stessi Obiettivi dello Sviluppo Sostenibile di cui tanto si parla mancano di una vera dimensione culturale.

Ma su che basi rifondare l’economia? Sembra banale, ma la risposta è relativamente semplice. Partendo dai punti fondamentali di qualsiasi progetto o processo: chi, dove, come, perché, quando. «Vogliamo creare un’economia?», dice l’autore citando il cinese Han-Sheng Lin nell’ambito del Progetto Rimodellare l’Ordine Internazionale, allora «guardiamo i nostri popoli. Chi sono? Sono numerosi, poveri, malnutriti, male alloggiati, privi di educazione, malati, disoccupati. Ecco il nostro punto di partenza. Non ce ne sono altri». Partendo dagli ambienti geografici, geo-politici e socio-culturali di ciascun popolo si possono identificare le specifiche esigenze da organizzare. Sebbene l’economia di scambio e di mercato sia necessaria e non vada esclusa, non per questo è sufficiente. Una vera economia dei servizi deve completare e rispondere alle esigenze specifiche di ogni popolo. Deve essere la fonte che pone le giuste domande e fornisce risposte adatte ai bisogni, non una componente accessoria dei risultati contabili dell’economia di mercato. Un’economia “consustanziale” al sociale, decentrata, endogena, adattata alle condizioni, al significato e al senso di appartenenza dei luoghi (un villaggio con le sue tradizioni, un’area rurale con i suoi saperi e pratiche, un quartiere urbano con la sua diversità), ma aperta al mondo e alla sua rete di relazioni. Il controllo sociale dei bisogni attraverso la partecipazione e il coinvolgimento necessario corrisponde di fatto alla soddisfazione di quelli ritenuti essenziali. Sul come fare esistono diversi livelli o scale. Un primo livello è quello del rispetto e miglioramento del potenziale produttivo locale, come l’equa ripartizione della proprietà della terra, la dignità di qualsiasi tipo di manodopera, la gestione sostenibile delle risorse naturali e lo sviluppo dei servizi d’interesse comune. Il secondo livello è una strategia di formazione fondata sulle conoscenze, capacità e pratiche locali, su un modello di scuola non standardizzata che sappia far pensare e interpretare i cambiamenti, sul rispetto e la giusta remunerazione del lavoro con le responsabilità, regole e risorse che lo caratterizzano. «Il compito più importante dell’insegnamento è di insegnare come si fa ad imparare, come si acquisiscono i metodi che permettono di affrontare i cambiamenti». Nella formazione rientra ovviamente anche la ricerca con i suoi risultati. Ma la ricerca non è esclusivamente quella scientifica. «La ricerca è anche l’esperienza di tutto un popolo, è l’osservazione dei contadini, l’abilità pratica degli operai e degli artigiani».

Un ulteriore livello è quello dei settori dell’economia: agricoltura, industria e servizi. Sicuramente l’agricoltura va ripensata nel suo ruolo, orientamento e potenziale, ed è proprio questo che sta accadendo oggi nel mondo. La FAO, Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Agricoltura e l’Alimentazione, ci ricorda che l’80% della produzione di cibo nel mondo viene dall’agricoltura silenziosa e familiare minacciata sempre di più dal 20% della produzione, pubblicità e distribuzione della gigantesca industria agro-alimentare. Si tratta di un cambio fondamentale di prospettiva, nel quale l’agricoltura si integra a tutto tondo nel tessuto sociale, economico e culturale in senso ampio, contribuendo a raggiungere obiettivi fondamentali e condivisi di benessere degli individui e di sostenibilità nell’uso delle risorse naturali. L’industria è fatta anch’essa di dimensioni, la piccola e media industria sostiene il mondo e paesi come l’Italia, ma è tutt’altro che sostenuta dalle politiche. L’artigianato racchiude segreti di saperi trasmessi che si perdono, mentre in un’economia “consustanziale” al sociale avrebbe un potenziale di connessione vitale alle risorse locali e dunque ruolo motore, e non di fenomeno da trofeo di improbabili viaggi e villaggi turistici da mettere in valigia, come spesso succede oggi.

Se questi ed altri livelli si possono considerare e analizzare caso per caso, il modo di riunire e condividere delle scelte operative può, o forse deve, avvenire attraverso un «contratto di solidarietà fra i membri della comunità nazionale» che assicura una pianificazione creativa e condivisa e una gestione partecipata degli orientamenti e delle scelte. Una solidarietà «negoziata, definita e messa in atto insieme» in un dialogo aperto al mondo. I singoli paesi hanno a disposizione un quadro di dialogo aperto al mondo: «conviene non tentare di lavorare al di fuori del quadro delle Nazioni Unite, dove i piccoli paesi possono esprimersi liberamente (ed essere ascoltati, ndr.) e dove il negoziato collettivo permette di prendere parte alla determinazione di obiettivi che li riguardano». Agli attuali scambi liberi e concorrenziali dominati dai paesi ricchi si integrerebbe uno «scambio di secondo grado che garantirebbe il benessere di ognuno dei contraenti, paesi o gruppi sociali». Non più paesi, economie e culture egemoniche da un lato e gli eterni subalterni sulla via di un ipotetico sviluppo mai o mal definito, ma un concreto «sviluppo dell’autonomia creatrice dei popoli in uno scambio internazionale riequilibrato» fondato sull’energia di un patrimonio condiviso e costituito da miriadi di “povertà operative”, leve di uno sviluppo dal basso, risorse culturali e naturali per un mondo dove è «costantemente necessario reinventare il proprio divenire». Non «fatalità o rassegnazione, né ottimismo incosciente e beato», ma «valore positivo da scegliere liberamente e che interpella tutti, individui e popoli».

Negli anni in cui è stato pubblicato il suo libro in Francia, ero studente di scienze forestali all’università e percorrevo la geografia del mondo con le sue risorse naturali ed umane attraverso lezioni, testi, esercitazioni in campo e viaggi di studio. Ho conosciuto in seguito, lavorando per programmi e progetti internazionali in tanti paesi “poveri” del mondo, persone che conoscono meglio degli esperti i valori e la ricchezza del legame tra natura e uomo. Il titolo di quel libro di Albert risuona ancora oggi per me vibrante e potente come i rintocchi di quell’enorme campana del villaggio ai margini della storia russa di Andrej Rublëv nel capolavoro di Andrej Tarkovskij, insieme al senso profondo del suo messaggio che ci sveglia a realtà ignorate o dimenticate come la frase di Amleto «ci sono più cose in cielo e in terra di quante ne sogni la tua filosofia». Albert nel suo libro non sogna, ma vede attraverso una lucida analisi e sconcertante attualità quello che siamo, che abbiamo e che stiamo combinando. Apre o riapre strade da percorrere insieme costruendo una visione, una strategia, una missione che interroga tutti noi. Inutile dire che questo libro è stato un’ispirazione per la mia vita, professionale e personale.

Ma perché lo sto raccontando? Nel bel mezzo dell’atmosfera sospesa di qualche giorno prima della festa di San Domenico Abate a Cocullo, tra animate parole e accesissimi discorsi che scorrono lungo il mistero di questo piccolo popolo che discute ai piedi delle montagne, come avrebbe detto Voltaire, ho sentito risuonare netta e distinta una frase antica: la povertà, ricchezza dei popoli. In uno di quegli attimi che contengono la vita intera, mi sono rivisto giovane laureato agli inizi degli anni ’80, dopo una tesi di laurea fatta tra le montagne intorno a Cocullo. Cercavo allora l’orizzonte di un mondo nuovo rivolgendomi lontano, come uno dei personaggi di spalle nell’affresco del Mondo Nuovo di Giandomenico Tiepolo. Animato dall’apparente benessere e sicurezza di quegli anni, pensavo ingenuamente a chi aveva bisogno di noi, del nostro aiuto, dei nostri saperi da neolaureati destinati a diventare esperti in Africa o forse in America Latina o chissà dove ancora. Pochi mesi dopo sono partito, anzi siamo partiti in quasi quattro per il Costa Rica, una moglie antropologa, io, un primo bambino nato in un paese ricco e un altro che di lì a poco sarebbe nato in un paese povero. Povero? Povero di che? Perché povero? Tra i libri che ci accompagnavano c’era appunto quello di Albert Tévoédjiré. Proprio a Cocullo è risaltata fuori questa frase apparentemente paradossale della povertà come ricchezza. Grazie ad Emiliano Giancristofaro che l’ha prima quasi sussurrata tra sé e sé, poi sollevata a riflessione per tutti e alla fine discussa con entusiasmo, chiedendomi di raccontare di più sul contenuto e sulla persona dietro al libro. Grazie soprattutto ai Cocullesi e alla loro vera ricchezza nascosta ai piedi delle montagne.

Pier Carlo Zingari

Poverty as wealth for the people. The paradox of Albert Tévoédjrè.
Keywords: Economy, inequality, cultural creativity, solidarity.

Rivista Abruzzese